A che gioco giochiamo?

A che gioco giochiamo?

A che gioco giochiamo?

Un racconto di psicomotricità

Il gioco è da sempre lo strumento privilegiato che i bambini hanno per raccontare di sé, della propria storia, delle loro paure e dei loro desideri.

In uno spazio e in un tempo definito, nella sala di psicomotricità, prendono forma storie di draghi, di principesse e di cavalieri; di animali con doti particolari; di sotterranei e passaggi segreti.

Partendo dall’attività spontanea dei bambini le possibilità che si aprono sono infinite, il loro mondo è un posto magico e misterioso.

Così la sala diventa un posto per rafforzare un’immagine positiva di sé; un posto dove scoprire il piacere del fare e non il piacere di ricevere un giudizio positivo; un’occasione per sperimentare il pensiero logico-matematico (piccolo, grande, simmetrico, asimmetrico).
Un posto, insomma, per sentirsi forti e capaci: sperimentando, creando, distruggendo, riorganizzandosi e ripartendo quando le cose non vanno come previsto.

E l’adulto cosa fa? È lì a disposizione del bambino: osserva, approva, incoraggia, gratifica, aiuta, regola.
In sintesi è colui che offre la possibilità di sperimentare entro limiti chiari, coerenti e sicuri.

Il suo compito è valorizzare il legame tra psichico e fisico, tra emozioni e conoscenza. Riconoscendo e supportando le risorse e le differenze individuali evita così una standardizzazione del percorso di crescita.

Ma come è possibile che tutto ciò accada?

Oggi in sala c’è una bambina che sta guardando attentamente i materiali. Sono cubi e parallelepipedi colorati.

Di per sé non vogliono dir nulla. Come può usarli? Come si gioca?

Certo con le macchinine è più facile… possono andare in salita o in discesa, possono andare forte o piano; ma resteranno pur sempre delle macchinine. Questi invece come si usano?

Così inizia a spostarli. Alcuni sono più grandi, altri più leggeri. È più comodo sollevarli o trascinarli? Li riesce a tenere sulla testa.

“Sono forte – mi dice – riesco anche a metterli in equilibrio”.

Vorrebbe altri pezzi, ma come può fare con quelli che ha?

Così un pezzetto alla volta, prende vita un muro, un forte e maestoso muro. “L’ho fatto io?”

“Si lo hai proprio fatto tu”.

Ma che cosa è quel muro ora? È diventato un ostacolo, qualcosa che divide, una prova da superare.

C’è un posto per passare in mezzo, ma è pericoloso. Reggerà?

Una parte del muro sta diventando una casa, dove c’è un posto sicuro per gli affetti, una stanza tutta per loro.

È curata, ci sono teli colorati e una tettoia.

La casa diventa un posto da cui partire, uscire fuori per esplorare il mondo. Ma il fuori è diventato un posto incerto. Però lei vuole esplorarlo e supera il muro.

Così la spalliera diventa una montagna da scalare e arrivando in cima si può vedere il cielo; i materassi sono diventati un mare dalle acque calde e tranquille, un mare in cui tuffarsi per poi riposarsi un po’.

Al di là del muro ci sono delle spade e dei bastoni. Serviranno per attaccare o per difendersi?

Non servono più a quello, il progetto è cambiato. Non sono più armi, sono un sostegno. Sono diventati dei pilastri per tenere il muro ma, al muro, dopo poco non serve più un sostegno. Ci si può anzi passare attraverso in sicurezza perché è già stabile.

Così i pilastri diventano luci, alti lampioni per ritrovare la strada di casa anche quando è buio.

Il tempo sta per finire. Ora ci si prepara a concludere i giochi, ma il muro resterà lì, con tutta la sua resistenza: per ricordarle che i limiti si possono superare, che le paure si possono sconfiggere. Che ci si può anche allontanare perché c’è sempre una casa in cui fare ritorno.

Ora ci si può salutare con il ricordo di scalate fino al cielo, tuffi nel mare, ostacoli superati e affetti sicuri.

”Ma uscendo devo lasciare il mio muro?”

”Si, ma puoi ricordartelo, lo hai fatto tu”.

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